Desiderio, dovere, dimenticare: Quaderno proibito (1952), Alba De Céspedes
brevi riflessioni e una serie di citazioni dal romanzo
Sono stata vari giorni senza scrivere perché mi sentivo staccata da me stessa. Mi pare che io possa continuare ad andare avanti soltanto a patto di dimenticarmi. Mi basterebbe non riflettere troppo… (117)
Col passare dei giorni e dei mesi, l’atto di tenere un diario fa notare a Valeria Cossati per la prima volta la sua stessa vita, le fa capire cose che non era riuscita a comprendere prima di elaborarle fra la penna e la pagina. Cambia tutto, dentro di lei, comincia a cambiare anche il rapporto con le persone che ha intorno. La consapevolezza la trasforma, ma in un certo senso la imprigiona. Le prime parole che scrive sono, “26 novembre 1950. Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo.” Più avanti scriverà, “Sono stata vari giorni senza scrivere perché mi sentivo staccata da me stessa. Mi pare che io possa continuare ad andare avanti soltanto a patto di dimenticarmi. Mi basterebbe non riflettere troppo…” (117). Facendo il resoconto di un’importante conversazione con la figlia Mirella, scrive:
Il suo continuo riflettere mi mette paura e, soprattutto, m’ispira pietà. È inutile pensare tanto, i giorni svolgono ugualmente il loro corso, con indifferenza; Mirella sembra stretta in una macchina crudele che la stritolerà. (173).
Ma anche Valeria è stretta in questa macchina, che giorno dopo giorno stritola anche lei, stretta, sempre più stretta, senza via di fuga. ‘Quaderno proibito’ di Alba De Céspedes è un libro di rivelazioni, per Valeria che scrive ma anche per noi che leggiamo: quasi ad ogni pagina siamo colpite allo stomaco.
Valeria è un personaggio ricco, complesso, pieno di sfaccettature; non è un’eroina femminista, tesa a spezzare le proprie catene, ma una donna borghese che inizia a notarne la presenza mentre cerca con tutta se stessa di fingere non siano catene. Pian piano, comincia ad ammettere a se stessa i propri desideri, a riscoprire la propria individualità, il suo essere una donna e non “Mammà”—il nomignolo che suo marito Michele le ha affibbiato dopo la morte della propria madre, il nomignolo che lei odia e la spersonalizza. Non subito, e non sempre, Valeria ammette questi desideri per iscritto, nemmeno nel segreto del quaderno che nasconde con tanta cura; ma quello che non riesce ad ammettere trapela comunque, nascosto fra le righe, nello scontro con Valeria-Mammà che riesce a darsi valore solo nel sacrificio e nel dovere verso la famiglia.
Spesso, per Valeria, la felicità non è felicità, ma la finta serenità data dal non ricordare, non riflettere, non pensare, non rimuginare, nemmeno notare. Nascondere, sempre, il proprio volto agli altri, spesso anche a se stessa. La parte di lei che non riesce ad ammettere esista si scontra con la morale cristiana, con la morale borghese degli anni Cinquanta italiani, con l’immagine che di lei hanno in casa. Il riflettere, il voler cambiare le cose, le sembrano così fuori posto da dire a un certo punto che solo lei e suo figlio Riccardo sono “persone normali” in famiglia; eppure lei stessa ammette che i pensieri che esprime sua figlia, che esprime a volte suo marito, sono “cose che qualche volta penso anch’io, ma che, quando le sento dette, non oso approvare”:
«Tu riconosci solo l’autorità familiare» diceva: «È la sola che t’abbiano appreso a rispettare, senza giudicarla, attraverso il castigo e la paura.» «E tu che cosa rispetti, invece?» le ho chiesto ironicamente. Lei ha risposto, seria: «Intanto me stessa». Mi ha detto che sono legata a pregiudizi nei quali, forse, neppure credo. Io ho ribattuto che, in ogni caso, ho sempre pagato ciò che dovevo a questi pregiudizi. «Appunto» ella ha detto: «io non voglio pagare per ciò che non approvo. Ne parlavamo oggi con papà, a tavola, hai sentito?, eravamo d’accordo». È vero: dicevano cose che qualche volta penso anch’io, ma che, quando le sento dette, non oso approvare.
Michele, ad esempio, ha sempre saputo quale sia la sua coscienza d’uomo: durante tutta la vita ha dimostrato di saperlo. Oggi, invece, diceva che bisogna accettare il tormento di cercare una coscienza nuova e, cercandola, crearla. Deve essere qualcosa che ha sentito dire da Clara. Non vedo l’ora che conosca la sorte del soggetto e smetta di andare tanto spesso da lei. Quando parla così, mi fa paura; anche Mirella mi fa paura. A volte penso che soltanto Riccardo e io siamo due persone normali. (167-168)
Un altro modo in cui Valeria è spersonalizzata nel personaggio di moglie-madre-Mammà è la perdita della sfera sessuale. Rilegge vecchie lettere dal fronte del marito, di quando i figli erano piccoli, la madre di Michele ancora in vita; scopre una frase: “In una lettera diceva: “Voglio ritrovarti, Valeria mia. A volte non mi riesce più di vederti: ti sei nascosta tra i figli” (164). Poi riflette: “Quando i figli sono presenti, il marito se anche ti vede bella non può guardarti con desiderio, se un tuo gesto, un tuo atteggiamento lo attrae, non può stringerti a sé, baciarti; così, a poco a poco, non ti vede più” (199). Non mi riesce più di vederti, il marito […] non ti vede più: è l’inizio della fine. Quando prova a baciare suo marito, lui la rifiuta, tiene le labbra chiuse, la allontana, le ricorda che ci sono i figli grandi in casa. Valeria va da sola in camera da letto e si spoglia: “cercavo di vedermi vecchia, umiliata anche nell’aspetto esteriore, e non ci riuscivo. Anzi, riprendevo a piangere perché mi vedevo giovane: la mia pelle era bruna e liscia sul disegno asciutto delle spalle, la vita sottile, il busto pieno. A stento mi trattenevo dal singhiozzare […]” (198). Michele la fa vergognare così tanto del suo desiderio che Valeria prova a far combaciare se stessa con “la casta immagine” dello specchio (199). Forse incapace di pensare troppo male di Michele, di incolparlo direttamente, almeno per iscritto, Valeria riflette sulle condizioni materiali della vita in famiglia e di come l’abbiano portata a non avere più rapporti sessuali col marito:
Forse è questo che da tanti anni ci impedisce di essere ancora come quando eravamo sposi, o quando i bambini erano piccoli e non capivano niente: è la presenza dei ragazzi oltre la parete. Bisogna aspettare che essi siano usciti, bisogna aver la certezza di non essere sorpresi; e i ragazzi sono dappertutto, in una casa. La notte bisogna ricorrere al buio, al silenzio, trattenere ogni parola, ogni gemito, e al mattino non ricordare più ciò che è accaduto nel timore che essi possano leggercene il ricordo negli occhi. Quando ci sono figli in casa, già a trent’anni bisogna fingere di non essere più giovani se non per giocare, ridere con loro: fingere di essere solo un padre e una madre; e a forza di fingere, a forza di aspettare che loro siano usciti, che loro non sentano, non immaginino, si finisce per non esserlo davvero più. Quando si odono oltre la porta le voci dei figli, stringersi tra marito e moglie in una camera chiusa a chiave ove si è detto di essere entrati per dormire, è una cosa sconveniente, una cosa sudicia, un peccato più grande di quello che compiono coloro che, non sposati o addirittura sposati ad altri, s’incontrano clandestinamente nelle camere d’affitto, negli alberghi, negli appartamenti degli scapoli. Se i ragazzi ci sorprendessero torcerebbero la bocca in una smorfia di disgusto; e io, al solo immaginare quella smorfia, abbrividisco. Una madre, di fronte ai propri figli, deve sempre mostrare di non aver mai conosciute queste cose, non averne goduto mai. È questa falsità che ci fa avvizzire. Sono loro i colpevoli, loro. […] Ecco, ora d’improvviso mi pare di aver capito ciò che ci fa temere che i figli s’avvedano di una nostra vita segreta, ciò che ci rende tanto restii a concederci ad essa, è perché sentiamo che moglie e marito i quali si uniscono in un rapporto oscuro, silenzioso, dopo aver parlato tutto il giorno di questioni domestiche, di danaro, dopo aver fritto le uova, lavato i piatti sporchi, non obbediscono più a un felice, gaio desiderio di amore, ma solo a un istinto grossolano come quello della sete, della fame, un istinto che si appaga al buio, rapidamente, a occhi chiusi. Che orrore. (198-199; mio grassetto)
È evidente il collegamento fra le “questioni domestiche” narrate in queste righe e il tema della precarietà economica, che pure viene esplorato a lungo, specialmente all’inizio del romanzo, come se fosse la chiave per analizzare poi tutte le altre dinamiche famigliari dei Cossati, che a loro volta chiariscono a Valeria sempre più se stessa, nonostante finisca per concludere che “tutta la vita passa nell’angoscioso tentativo di trarre conclusioni e non riuscirci” (240).
Sono rimasta attonita dalla bellezza del romanzo, dalla profondità e complessità del personaggio di Valeria, il suo rapporto con Mirella, il suo rapporto col figlio Riccardo, con Michele, con il suo capo Guido, con le sue vecchie amiche della scuola, con la madre. Vorrei concludere con una serie di citazioni dal romanzo, che vi invito caldamente a leggere:
Perché hai detto che tutto è diverso quando esci di casa?» Ero ansiosa di conoscere la sua risposta, speravo che servisse a chiarire anche quello che provo io. «Perché è vero, mamma. Perché prima non conoscevo altra vita che la nostra. Forse anche perché ho visto da vicino i ricchi. E i poveri non dovrebbero mai vedere il danaro troppo da vicino: fa una grande impressione. Fa paura. È lì tutto il male, mamma, il motivo di tutto lo sbaglio è lì. Lì, quello che vorrei riuscire a veder chiaro, che bisogna capire.» Le ho domandato se si riferisse alla guerra. Lei ha detto sì, alla guerra, e anche a tante altre cose che sono in lei, e in me e in Riccardo e in papà, tutte da rifare. (146)
«Mirella non potrà mai essere molto felice, signora, è troppo intelligente». Ho sorriso dicendo: «Tutti sono intelligenti a vent’anni, è col tempo che diviene sempre più difficile esserlo. Ma forse, in compenso, s’impara a essere felici». (156)
Quando guardo Michele, rimpiango di non desiderare più di andare a Venezia con lui. Tutto sarebbe facile, semplice, chiaro, e io non mi dibatterei in tanti sentimenti contrastanti. Ma, se vi andassimo insieme, non proverei quella felicità di cui sono assetata. Siederemmo a un caffè in piazza San Marco, zitti, ascoltando la musica, distraendoci col viso dei passanti, come facciamo a volte, in agosto quando Roma è deserta e andiamo a sederci al caffè nella piazzetta qui presso, dove c’è un’orchestrina che spesso suona Il Sogno del Ratcliff. Forse ritroveremmo un certo entusiasmo alla tavola di una trattoria dove si mangia bene; ma non mi piace andare in trattoria con Michele: alla fine, nel vedere i biglietti che, dopo aver controllato due volte la cifra, egli posa sul conto, penso sempre che non valeva la pena. (207)
«No, non pensare a nulla» le ho detto «penserò io, la mia stanchezza è solo passeggera, vedrai, ora mi riprendo subito. Tra poco tornerà a casa tuo padre, voglio che mangi prima… prima di parlargli di tutto ciò. Non ti occupare di queste cose, Mirella» ho ripetuto: «Tu hai il tuo lavoro, i tuoi studi, la tua strada…». Poi più piano, ho aggiunto: «Vattene». Mi pareva di dover tagliare, per la seconda volta, il vincolo col quale, prima che nascesse, la tenevo legata a me. «Vattene» ho ripetuto: «Temo che qui ci siano molte brutte cose, molte bugie. Forse non te lo dirò più, ma ricordati che te l’ho detto stasera: salvati, tu che puoi farlo. Vattene, fa’ presto.» Mirella mi stringeva forte, non ci guardavamo. (220)
A volte, osservando i miei genitori, vedendoli bisticciarsi per motivi irrilevanti, mi domando come possano dimenticare di essere sotto la costante minaccia della morte. (235)
Non capisce che sono stata proprio io a renderla libera, io con la mia vita dilaniata tra vecchie tradizioni rassicuranti e il richiamo di esigenze nuove. È toccato a me. Sono il ponte del quale lei ha approfittato, come di tutto approfittano i giovani: crudelmente, senza nemmeno avvedersi di prendere, senza darne atto. Adesso posso anche crollare. Eppure mi pare di vedere tutto con chiarezza, stasera quando ho incominciato a scrivere credevo d’essere giunta al punto in cui si traggono le conclusioni della propria vita. Ma ogni mia esperienza – anche quella che mi viene da questo lungo interrogarmi nel quaderno – m’insegna che tutta la vita passa nell’angoscioso tentativo di trarre conclusioni e non riuscirci. Almeno per me è così: tutto mi sembra, allo stesso tempo, buono e cattivo, giusto e ingiusto: persino caduco ed eterno. I giovani non lo sanno e, perciò, quando non sono come Riccardo, sono come Mirella. (240)
«Io sono una piccola borghese e sono più familiare col peccato che col coraggio e con la libertà.» (246)
I numeri di pagina fanno riferimento all’edizione Oscar Mondadori, collana Moderni, del 2022.